Doppia imposizione misure cautelari
Obbligatorio dimostrare in concreto la presenza in Italia di stabile centro di interessi
Doppia imposizione misure cautelari. La Terza Sezione della Corte di cassazione – con la sentenza 29095 2020 Cass. pen. Sez. III Sent e con riferimento a ricorso avverso ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso in riferimento alla violazione di cui all’art. 4 d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – ha ritenuto inammissibile la doglianza posta a fondamento del ricorso per cassazione, affermando che in tema di doppia imposizione ciò che viene in rilievo, in riferimento ad un provvedimento cautelare, è il fumus commissi delicti, per il quale occorre una valutazione in concreto, riferita, nel caso in esame, ad indici fattuali dimostrativi della sussistenza in Italia di uno stabile centro di interesse personale e familiare del ricorrente, nonché dello svolgimento di regolari e continuative attività della vita quotidiana da parte dei medesimi soggetti.
Con la sentenza 29095/2020 la Corte di cassazione, Sezione Terza penale, ha esaminato il caso di un calciatore professionista, il quale aveva sostenuto di aver svolto, negli anni corrispondenti al reato contestatigli con l’imputazione provvisoria posta a fondamento della misura cautelare reale, attività professionale alle dipendenze di una società sportiva con sede in uno Stato estero, con sua costante presenza presso detto Stato, dovendosi considerare irrilevanti gli atti dispositivi del patrimonio dal medesimo posti in essere in Italia, alla luce della diffusa prassi della firma preventiva; inoltre nei detti anni – 2014/2017 – il passaporto rilasciato dallo Stato estero anche alla moglie ed ai figli, la disponibilità in detto territorio di un’abitazione e di una vettura, il rilascio di patente di guida da parte delle locali autorità e l’iscrizione presso un locale circolo privato, avrebbero costituito altrettante circostanze dimostrative della residenza fiscale del ricorrente presso lo Stato estero, anche alla luce della Convenzione OCSE che vieta la doppia imposizione fiscale, che si impone anche sulle norme interne.
Occorre ricordare che le Convenzioni per evitare le doppie imposizioni altro non sono che trattati internazionali, con i quali i paesi contraenti regolano l’esercizio della propria potestà impositiva al fine di eliminare le doppie imposizioni sui redditi e/o sul patrimonio dei rispettivi residenti; dette convenzioni hanno anche lo scopo di prevenire l’evasione e l’elusione fiscale, prevedendo, in tal senso, anche disposizioni sulla cooperazione amministrativa. Esse, inoltre, si basano sul modello di Convenzione elaborato in sede OCSE oppure in ambito ONU, ed entrano a far parte dell’ordinamento giuridico all’esito del procedimento di ratifica da parte del Parlamento seguito con legge ordinaria, che conferisce piena e integrale esecuzione al trattato.
La tematica è stata affrontata dalla giurisprudenza di legittimità soprattutto in riferimento alle società commerciali con sede legale all’estero ma operanti in Italia, ovvero ai casi di merci importate nel territorio nazionale, distinguendosi tra la possibilità di configurare il reato di contrabbando doganale ovvero quello di evasione dell’I.V.A. all’importazione, tenuto conto del limite del divieto di doppia imposizione. Doppia imposizione misure cautelari.
In riferimento alle persone fisiche, il filone giurisprudenziale di legittimità più di recente delineatosi ritiene che – richiamando la costante giurisprudenza delle sezioni civili della Cassazione – in tema di reati tributari, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell’art. 43 c.c., è obbligato a presentare una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto colui che ha la residenza fiscale in Italia, per tale dovendosi intendere anche chi, pur risiedendo all’estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali.
In particolare, l’art. 2 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, al comma secondo, sancisce che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”
A detto comma l’art. 10 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, poi sostituito dal comma 83 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, ha aggiunto un comma 2-bis, secondo il quale “Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”; si tratta, in tale caso, degli Stati e dei territori con un regime fiscale privilegiato, che sono stati individuati con D.M. 4 maggio 1999. Tutto ciò per limitare il fenomeno della c.d. esterovestizione.
Secondo la pronuncia in commento, tale disposizione normativa si basa su un duplice criterio, sia formale che sostanziale, che, nel caso esaminato, risulta del tutto rispettato, posto che la famiglia del ricorrente non aveva mai trasferito la residenza da una città italiana e che, inoltre, lo Stato estero coinvolto rientrava nell’elenco degli Stati a regime fiscale privilegiato, il che faceva scattare la presunzione relativa di residenza in Italia, di cui al comma 2-bis della norma citata.
Detta presunzione, quindi, essendo, come detto, relativa, può essere superata dall’interessato, il quale può fornire la prova della sussistenza degli indici di effettiva residenza all’estero, dimostrando, quindi, la perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la speculare controprova di una reale e duratura localizzazione nello Stato fiscalmente privilegiato.
Nel caso in esame, inoltre, era stata valutata anche la specifica Convenzione intercorrente tra lo Stato italiano e lo Stato fiscalmente privilegiato in tema di divieto di doppia imposizione, la quale enuclea i criteri da considerare per verificare quale paese debba ritenersi di effettiva residenza di un soggetto; tali criteri, non alternativi, sono:
1) il possesso di un’abitazione permanente;
2) l’individuazione del centro degli interessi vitali, tale essendo il luogo nel quale sono più stringenti le relazioni personali ed economiche, familiari, sociali, occupazionali, politiche, culturali ed altro;
3) il luogo di soggiorno abituale, in termini analoghi al concetto di residenza, di cui all’art. 43 c.c.
Alla luce delle circostanze fattuali emerse, quindi, la Corte di Cassazione ha ritenuto del tutto logicamente motivato il provvedimento impugnato, che aveva evidenziato plurimi ed eterogenei indici rivelatori della permanenza in Italia di uno stabile centro di interesse personale e familiare del ricorrente, nonché dello svolgimento, ivi, di regolari e continuative attività della vita quotidiana da parte dei medesimi soggetti, non avendo, sotto altro profilo, il ricorrente stesso dedotto di aver adempiuto agli obblighi fiscali nello Stato estero, presupposto, quest’ultimo, indispensabile per l’applicazione della Convenzione sulla doppia imposizione.
Nel caso in esame, inoltre, la Convenzione sottoscritta dall’Italia e dallo Stato estero coinvolto, regolarmente ratificata, prevede che i proventi delle professioni indipendenti debbano essere tassati nello Stato di residenza del contribuente, salvo che essi costituiscano remunerazioni per servizi resi ad uno Stato contraente o ad una suddivisione politica o amministrativa o ad un ente locale, intendendosi con tale espressione non soltanto le attività inerenti all’esercizio delle funzioni pubbliche tipiche afferenti il Governo dello Stato, ma in genere qualunque servizio chiesto dal Governo per profili di interesse generale. In tal caso, in base al trattato, tali emolumenti possono essere comunque inclusi nella base imponibile, a condizione che sia riconosciuta una detrazione pari all’imposta versata nello Stato estero, purché non vi sia una disposizione della medesima che espressamente stabilisca diversamente.
Come detto in precedenza, la Cassazione ha ritenuto le descritte condizioni insussistenti, alla luce della motivazione del provvedimento impugnato, dichiarando, pertanto, inammissibile il ricorso.
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